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Esclusiva, elitaria, quasi impossibile da avere: semplicemente, Birkin. La borsa più desiderata al mondo è ora sotto accusa per pratiche commerciali ritenute sleali, tutte da dimostrare. Scacco matto alla strategia del desiderio?

Una nuova e inedita disputa legale ha scosso gli animi (e i portafogli) nel regno del fashion. Al centro della bufera troviamo la maison Hermès, e in particolare la sua ambitissima borsa Birkin, diventata, ça va sans dire, uno status symbol del lusso allo stato puro, iconica come la Jane da cui prende il nome.

E che ora viene portata dritta a processo in un tribunale federale della California del Nord da due clienti privati ai quali l’accesso elitario è stato ripetutamente negato. L’accusa? Il presunto schema anticoncorrenziale della casa di moda, che approfitta «della desiderabilità unica, dall'incredibile domanda e dalla bassa offerta» delle sue borse più celebri, per legare la loro vendita all’acquisto di altri prodotti di altre categorie merceologiche più (relativamente) abbordabili.

Che per entrare in possesso di una Birkin, oltre ad avere le tasche foderate d’oro – l’ultimo modello sfoggiato da Kim Kardashian sfiora i 100 mila euro, ma con la Nilo Crocodile arriviamo tranquillamente ai 300 mila –, non si possa semplicemente entrare in una boutique Hermès o metterla in un carrello online, scegliere il modello e procedere all’acquisto è universalmente noto. Bisogna far fronte alla fantomatica e leggendariamente infinita lista d’attesa.

Ricordiamo le peripezie di Samantha Jones in Sex and the City per ottenerla? Ecco, così funziona: più il fattore esclusività incalza, più la desideriamo. Fino ad uscire di testa. Tanto che i querelanti Tina Cavalleri e Mark Glinoga affermano, non a torto, che «alla maggior parte dei consumatori non verrà mai mostrata una borsa Birkin in un negozio al dettaglio Hermès, in genere, ma solo a quei consumatori ritenuti degni di acquistarla verrà mostrata in una stanza privata».

E qui arriviamo al nocciolo della questione: chi sarebbero questi consumatori meritevoli? Secondo l’accusa, sarebbero coloro che hanno «stabilito una sufficiente “cronologia degli acquisti” o “profilo d’acquisto” con dei prodotti accessori, come scarpe, sciarpe, cinture, gioielli e articoli per la casa».

Quindi, ardenti di desiderio, per diventare idonei ed avere il privilegio di portare al braccio l’impossibile Birkin dovremmo aver già acquistato una consistente quantità di prodotti extra, in un certo periodo di tempo. Solo collezionando questi orpelli «minori» potremmo scalare la graduatoria e conquistare l'it bag con tempi di attesa relativamente ridotti.

Nello specifico, questo supposto schema di vendita entrerebbe in conflitto con lo Sherman Act, la più antica legge anti-trust degli Stati Uniti, che vieta «la monopolizzazione di qualsiasi parte del commercio», attuando una condotta «predatoria, escludente e anti-concorrenziale con il progetto, lo scopo e l'effetto di mantenere illegalmente il suo controllo sul mercato e il suo monopolio». E contemporaneamente con altre leggi dello stato della California, come il Cartwright Act, che vieta l’accordo costrittivo tra una singola impresa e gli altri soggetti del mercato per promuovere un sistema anticoncorrenziale.

Una strategia di marketing non solo della desiderabilità, ma dell’irraggiungibilità, tra patrimonio economico, attese messianiche e implicita «meritocrazia»? Al momento, la maison francese non rilascia dichiarazioni, ma ricordiamo che circa un anno fa negò a Business of Fashion l'esistenza di queste pratiche commerciali, pur riconoscendo la particolare attenzione prestata riguardo i potenziali acquirenti delle Birkin, con lo scopo di contrastare il mercato di rivendita. Mercato illegale che, dal canto suo, secondo comprovate fonti, indottrinerebbe i suoi «personal shopper» seguendo proprio questo schema di compere ausiliarie.

Un sistema discriminatorio, quello apparentemente adottato da Hermès= Può darsi, ma la griffe non sarebbe l'unica. E del resto, cosa sarebbe il lusso se non fosse così iperbolicamente snob? Il punto forse è un altro: qual è il vero confine tra esclusività del marchio e diritti dei consumatori oggi? Parola alla legge.

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